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Arte Letteratura

Ogni vita è un viaggio tra arte e amore

Un filo rosso sgomitolato che si dipana in volute e spirali è l’immagine rappresentata sulla copertina di Ogni storia è una storia d’amore di Alessandro D’Avenia, la cui lettura si svolge seguendo proprio questo filo, cercando di sciogliere i nodi che via via si formano e provando a raggiungere la matassa da cui ha avuto origine.

Il filo narrativo è il racconto mitico di Orfeo ed Euridice, tratto dal X libro delle Metamorfosi di Ovidio, che con i suoi sublimi esametri ripropone una delle tante versioni di questa storia d’amore e morte, di gioia per le nozze che si stanno per celebrare, ma anche di dolore per l’improvvisa morte di Euridice; è un racconto che descrive la discesa agli Inferi di un uomo ancora in vita, Orfeo, e l’ascesa dello stesso, solo dopo essere morto, verso i Campi dei Beati dove si ricongiungerà con la sua Euridice.

Il mito non è narrato per esteso ma diviso in dieci “soste” che intervallano trentasei racconti di donne in carne e ossa, le cui vicende, sebbene storicamente ambientate nelle epoche più disparate, sono legate da un altro filo, che è il filo tematico di tutto il libro: quello dell’amore. Quindi se il mito è pausa, momento di sublimazione della riflessione amorosa, i trentasei racconti, divisi in triadi, sono dedicati alle donne che sono state protagoniste di queste vicende in cui il filo dell’amore si è intrecciato indissolubilmente a quello dell’arte, della storia e della vita.

Dunque è attraverso degli exempla che si svolge questo viaggio che, pur avendo come protagonista il sentimento più trattato, cantato e idealizzato, risulta ancora originale e incomprensibile nella sua interezza; l’amore è movimento, scintilla creativa che ha acceso e bruciato, in alcuni casi, la vita e le opere di queste donne e di questi uomini, che questo sentimento non lo hanno solo vissuto, ma sublimato ed elevato oltre lo spazio e il tempo quotidiano e hanno finito per portarlo verso qualcosa che è infinito e incompiuto. Così da una serie di “casi particolari”, di vicende biografiche e letterarie, la riflessione, che l’autore propone e il lettore accoglie, è universale.

Per permettere ciò le trentasei storie non sono raccontate con la voce dei protagonisti, ma sempre da una terza persona, un narratore fuoricampo onnisciente, che prima, nelle vesti di spettatore, ha assistito alla vicenda e ora, come narratore, cerca di dipanare per il lettore i fili intrecciati di queste storie. Si tratta di una modalità narrativa particolare perché consente al lettore di avere la giusta distanza per immedesimarsi pur rimanendo se stesso, come doveva accadere agli spettatori che assistevano alle tragedie nell’Atene di V sec. a.C., che, con la visione di tali spettacoli, giungevano alla catarsi delle loro emozioni.

Così il marito di Fanny Brawne racconta di come in cinquant’anni di matrimonio con la donna non riuscì mai a eguagliare la sublimazione perfetta di un amore mai vissuto tra lei e il poeta John Keats; l’agente di Scott Fitzgerald è lo spettatore e narratore della scintilla che accese e bruciò la storia d’amore e arte di quest’ultimo con sua moglie Zelda; Luina Czechowska, che era stata una delle modelle di Amedeo Modigliani, descrive la storia di due anime che si intrecciarono così tragicamente e saldamente da non poter distinguere più quali fossero gli occhi di Jeanne Hébuterne e quali quelli di Modì; Doris, sorella dell’attrice statunitense Constance Dowling , racconta  di come Cesare Pavese fu distrutto da quell’amore mal ricambiato, che fu per lui grande fonte di ispirazione, tanto da dire: “Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te”; alla stessa fonte prima di Pavese aveva bevuto già Leopardi quando, non ricambiato da Fanny, produsse il Ciclo d’Aspasia, com’è raccontato da Antonio Ranieri, l’amico che gli fu vicino fino alla morte; al poeta Paul Claudel è demandato il compito di raccontare l’amore e il disamore, scolpiti nella pietra, della sorella Camille e di Auguste Rodin; mentre nelle lettere al fratello Theo si legge la storia d’amore e salvezza tra Van Gogh e una prostituta chiamata Sien, che ebbe esito tragico.

 

 

Queste storie, come le altre contenute nel libro, dove amore, disamore e arte si intrecciano, sembrano rimanere aperte e sospese: spesso l’autore conclude la narrazione con una domanda e in ogni capitolo si cerca la risposta al quesito posto al principio del viaggio: “L’amore salva?” .

Potrebbe sovvenire un’ulteriore domanda: “si possiede il giusto coraggio per salvare ed essere salvati?”. Da queste storie paradigmatiche, infatti, emerge con chiarezza che la prima componente fondamentale per amare è rinunciare al disamore, cioè all’egoismo e al desiderio di possedere l’oggetto amato, che appunto non dev’essere considerato oggetto, ma soggetto; il percorso per riconoscere il proprio disamore è impervio e necessita di un’analisi introspettiva che comporta una rivalutazione di tutti i parametri sui quali si sono basati i rapporti, è un viaggio che si deve intraprendere con coraggio e che necessita di un grande sforzo. Chi si incammina lo fa perché messo in moto dall’amore stesso che per sua natura è il sentimento produttivo per eccellenza; infatti, in queste storie d’amore si evince in modo tangibile cosa l’amore può produrre e come sia capace di sconfiggere il tempo e la morte: perché i versi di Pavese, i volti di Modigliani, i film di Fellini e i cieli stellati di Van Gogh sono frutto d’amore, di un fare produttivo che ha come base e motore propulsivo un sentimento che insegna l’arte e la vita.

Il mito di Orfeo ed Euridice chiarisce ancora meglio questo percorso: quando Orfeo scende negli Inferi per riportare indietro Euridice affronta la morte attraverso la sua arte, la blandisce con il suo canto; usa un trucco, è protetto dalla sua arte e si fa forte su questa, la quale però, per alimentarsi, userà proprio il dolore. Orfeo, infatti, contravvenendo agli ordini, si gira a guardare Euridice proprio poco prima di ritornare sulla Terra e la perde di nuovo, ma con quel dolore nutre la Musa che lo ispira e compone qualcosa di meraviglioso, tanto da suscitare l’invidia di chi non potrà produrre mai un canto così bello, ispirato da un dolore tanto grande. Orfeo muore per cantare Euridice e solo in questo modo, rinunciando a se stesso e alla cetra che lo proteggeva, può incontrare nuovamente Euridice non negli Inferi ma nei Campi dei Beati. Quella di Orfeo è una rinuncia di sé che è allo stesso tempo riaffermazione di sé, un sé ormai imprescindibile da quello di Euridice.

Bisogna fare attenzione a non ritenere che questo modo d’amare e la possibilità di intraprendere tale percorso sia fattibile solo per chi è ispirato dalla Musa: è sufficiente leggere la storia di Giulietta Masina e Federico Fellini per capire che lei, in quanto protagonista della sua vita, lo è stata anche delle sue opere d’arte; l’attrice, infatti, è in qualche modo presente persino nei film da lui girati in cui non ha recitato, in quanto forse l’unica in grado di decodificare le immagini visionarie che il regista realizzava.

Di natura molto simile è il rapporto tra Alma Reville e Alfred Hitchcock, rapporto che lui ha voluto celebrare in occasione dell’Oscar alla carriera con una delle dichiarazioni d’amore, ma soprattutto di stima, più belle in assoluto: “Lasciatemi ricordare per nome solo quattro persone che mi hanno dato il massimo affetto, stima, incoraggiamento e costante collaborazione. La prima delle quattro è una montatrice, la seconda è una sceneggiatrice, la terza è la madre di mia figlia, Pat, e la quarta è una cuoca capace di miracoli mai compiuti in una cucina casalinga. E si chiamano tutte Alma Reville“.

Testimonianza di quanto la vita sia il vero motore propulsivo e sublimante dell’arte è la storia di J. R. R. Tolkien e sua moglie Edith M. Bratt. Lo scrittore combatte e attraversa mille vicissitudini e traversie per la sua donna, le stesse che farà attraversare ai protagonisti dei suo romanzi, sottolineando un concetto importantissimo che rivoluziona completamente l’idea d’amore romantico: in una lettera indirizzata al figlio, infatti, Tolkien scrive che le donne sono “compagne nelle avversità” e non “stelle-guida“.

Questi tre racconti esemplari permettono di ritrovare il bandolo della matassa: i nomi delle donne che danno i titoli ai vari racconti non sono ideali romantici lontani e immaginifici, ma eroine che hanno agito fortemente per le loro storie a prescindere dal finale. Dunque ogni storia d’amore è realizzata da eroi ed eroine e, prendendo in prestito i versi da un’altra opera ovidiana,  Amores I, 9: “ogni amante è un soldato e Amore ha i suoi accampamenti; veglia, viaggia anche attraverso monti e fiumi ingrossati, e ha un coraggio senza limiti“.

Il coraggio qui richiesto è quello delle azioni quotidiane nelle quali si realizza e dalle quali trae la sua forza. Così, anche l’amore non nasce nell’arte ma genera l’arte dall’esperienza quotidiana, perché, prima che amore, l’arte è vita; l’amore permette solo la sublimazione di entrambe.

Così concludeva una sua poesia Alda Merini, per la quale amore e arte furono la stessa cosa:

Ecco,
fate l’amore e non vergognatevi,
perché l’amore è arte,
e voi i capolavori.

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Arte Eventi

Sulle orme del maestro Hokusai

La mostra temporanea in onore del celebre artista giapponese Katsushika Hokusai si trova nell’area espositiva del Museo dell’Ara Pacis a Roma.

Superate le tende dell’ingresso ci si ritrova in un mondo a sé e ci si dimentica totalmente di essere nel centro di una metropoli caotica, a ridosso di una delle strade dello shopping più famose. Nell’area si percepisce una tranquillità e una serenità assoluta, un silenzio che si potrebbe definire zen.

Passo dopo passo viene presentato un mondo idilliaco in cui l’uomo da una parte vive e lavora in armonia con la natura, dall’altra ne è a tratti sopraffatto. Il visitatore riceve le prime impressioni sull’arte del Maestro Hokusai da questo “mondo fluttuante” e dai suoi viaggi attraverso il Giappone. Più ci si addentra nella mostra e più cose si vengono a sapere su di lui e su quel paese che tanto ha colpito ed influenzato molti artisti europei.

Nella prima sala vi sono i ponti e le cascate più famose del Giappone. Proseguendo, nella sala successiva, di ampiezza maggiore, si è circondati dalla serie delle Trentasei vedute del Monte Fuji; su una parete dorata vi sono alcune delle opere più conosciute, come La grande onda presso la costa di Kanagawa e Giornata limpida col vento del sud (o Fuji Rosso).

La [grande] onda presso la costa di Kanagawa, dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji
Katsushika Hokusai La [grande] onda presso la costa di Kanagawa, dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji, 1830-1832 circa Silografia policroma Kawasaki Isago no Sato Museum
Giornata limpida col vento del sud (o Fuji Rosso)
Katsushika Hokusai Giornata limpida col vento del sud (o Fuji Rosso), dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji, 1830-1832 circa Silografia policroma Kawasaki Isago no Sato Museum

Gli uomini sono raffigurati ovunque, prevalentemente in primo piano rispetto al vulcano che pur essendo il protagonista delle vedute spesso appare lontano. Bisogna cercarlo bene perché in alcune stampe sembra nascondersi dietro agli alberi oppure dietro a un ponte; nell’Onda sparisce quasi, sommerso dall’acqua che si solleva per infrangersi con degli artigli che fanno paura.
In una teca di vetro al centro della sala vi è un dipinto su rotolo del Monte Fuji, presentato per la prima volta in Italia e in anteprima assoluta.

Il Monte Fuji al tramonto
Katsushika Hokusai Il Monte Fuji al tramonto, 1843 Dipinto su rotolo, Collezione privata

Per la prima volta nel nostro paese anche le opere dell’allievo non diretto Keisai Eisen, che pur traendo ispirazione da Hokusai per il paesaggio, realizzò creazioni completamente nuove e originali combinando il genere del paesaggio e quello dei ritratti di beltà in un’unica immagine, riflesso della vivacità culturale di Edo (nome dell’attuale Tokyo), del mondo seducente dei quartieri di piacere e in particolare della bellezza delle cortigiane e dei loro preziosi kimono.

Yamashita in Shitaya e Kōriyama in Ōshū dalla serie Paragoni di luoghi famosi nelle province
Keisai Eisen Yamashita in Shitaya e Kōriyama in Ōshū dalla serie Paragoni di luoghi famosi nelle province, 1818-1830 circa Silografia policroma, 38,0 × 25,7 cm Chiba City Museum of Art

Dal 1830, a seguito dell’introduzione del blu di Prussia, Eisen indirizzò la sua produzione verso la realizzazione di stampe con solo inchiostro blu (aizuri-e), caratterizzate dall’eccellenza delle gradazioni tonali eseguite nel formato del trittico e del ventaglio rotondo.

Momongawa dalla serie: Aspetti dello stile moderno
Keisai Eisen Momongawa dalla serie: Aspetti dello stile moderno, 1830-1844 circa Silografia policroma, 37.3×24.4 cm Chiba City Museum of Art

A confronto con le opere di Hokusai sono proposti anche diversi dipinti su rotolo dei suoi allievi Katsushika Hokumei, Teisai Hokuba, Ryūryūkyo Shinsai, Gessai Utamasa e Totoya Hokkei, che rivelano come medesimi soggetti codificati fossero reinterpretati dai diversi autori in termini figurativi del tutto originali e personali. Sia Hokusai che Eisen furono di ispirazione per tutti quegli artisti di fine Ottocento influenzati dal Japonisme, tra i quali Van Gogh, che in una delle lettere indirizzate al fratello scrisse:

“Quello che invidio ai giapponesi è l’estrema limpidezza che ogni elemento ha nelle loro opere. Le loro opere sono semplici come un respiro, e riescono a creare una figura con pochi, ma decisi tratti, con la stessa facilità con la quale ci abbottoniamo il gilet. Ah, devo riuscire anch’io a creare delle figure con pochi tratti.”

La mostra si conclude con la sezione Manga, un compendio in inchiostro nero con qualche tocco leggero di vermiglio, con il quale il Maestro trasmise le regole della pittura ad artisti ed appassionati.

Carpa e tartaruga
Katsushika Hokusai Carpa e tartaruga, 1839 Dipinto su rotolo, 99×35.5 cm (127.1 × 53.3 cm dimensioni totali) Collezione privata

Grazie all’enorme abilità di Hokusai, durante il percorso espositivo si passa da paesaggi ad animali semi-leggendari, da attori kabuki a beltà femminili, da guerrieri a spiriti, ogni soggetto realizzato grazie a svariate tecniche e diversi formati, come dipinti a inchiostro e colore su rotolo verticale e orizzontale, silografie policrome di ogni misura e surimono (biglietti augurali, inviti, calendari per eventi e libretti per teatro).

Eppure, come si apprende da Bruno Munari, Hokusai fu tutto questo e molto altro:

“Hokusai non era soltanto un pittore. Aveva curiosità leonardesche, si interessava di architetture, di macchine strane, di costumi, si divertiva a fare strabilianti caricature (io l’ho conosciuto quando lui era già andato a curiosare nell’altro mondo). Grazie caro amico, grazie del tuo insegnamento allegro”.

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Cinema

La Napoli velata e l’opacità del vero

Napoli Velata, l’ultimo film di Ferzan Ozpetek, si rivela un ammaliante racconto sospeso tra realtà e ricordo, immaginazione e rappresentazione, deduzione e rivelazione.

Una sera, ad una festa in cui assistono all’arcaico rito della “Figliata dei Femminielli”, Adriana e Andrea s’incontrano, sono magneticamente attratti l’uno dall’altra e decidono subito di passare la notte insieme. Il sesso tra i due è rappresentato nella maniera più realistica possibile, senza mezze inquadrature, senza romanticismi né sottintesi; si assiste alla concretezza del primario desiderio senza il velo del pudore, e tale prospettiva non viene accolta con completa disinvoltura dal pubblico in sala. È proprio vero: “non si sopporta la troppa verità”.

Eppure nulla è come sembra: questo non è il semplice incipit di un’improvvisa e travolgente relazione passionale tra due sconosciuti, è l’origine di una concatenazione di eventi che faranno emergere tormenti psichici, vecchi fantasmi e violenze celate.

I personaggi intrecciano una serie di profonde relazioni tra se stessi e l’ambiente circostante, in cui soprattutto l’arte, “l’abuso di verità”, è la cornice, la tela e il veicolo d’espressione dell’intera storia. Statue classiche e affreschi pompeiani riportano alla mente di Adriana il corpo e i gesti di Andrea, icasticamente impressi nella memoria e rivissuti dai sensi. L’arredo costituito da vasi antichi e sedie eleganti fornisce la testimonianza di una vita passata ancora aleggiante, i cui echi si riverberano tra le pareti di una casa che rievoca di continuo una verità sepolta, a sprazzi riemergente.

Gli occhi rappresentano il simbolo principale della storia: possono scivolare sulle curve di un corpo, scrutare la bellezza di un’immagine, riprodurre una figura, portare fortuna o anche essere oscurati per non intralciare i desideri più profondi dell’animo.

Napoli, la città attraversata da Adriana, è essa stessa eterogeneità e spettacolo, una città il cui folklore è portato alla luce non come mero elemento accessorio ma come profonda espressione scenica della sua anima misterica, tradizionale, superstiziosa, simbolica e viscerale.

Il thriller si snoda così tra le strade della città, tra incantevoli paesaggi naturali, preziosi complessi monumentali e strette vie popolari, proponendo un’insolita alternanza di volti comuni, riconoscibili nel quotidiano, e maschere allegoriche stranianti, in un’ipnotica giustapposizione di particolarissime espressività.

Dopo aver stimolato diverse congetture, l’essenza del racconto conduce gradualmente all’idea che la realtà nella sua interezza è inconoscibile; si può scegliere di vivere il presente senza scostarne il velo, accettando la compresenza di luci e ombre, evidenti certezze e indimostrabili convinzioni, oppure ci si può rifugiare consapevolmente in un mondo immaginifico e illusorio che può offrire risposte confortanti ma assolutamente vane.

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Eventi Folklore

Il giardino incantato del Natale

Anche quest’anno Salerno apre le porte al Natale con le tante luci colorate che addobbano la città ma, come è avvenuto già negli anni scorsi, non si tratta di semplici decorazioni bensì di un vero e proprio villaggio natalizio.

Ormai da tempo le luci d’artista rappresentano un aspetto peculiare della città che, durante il periodo natalizio, vanta un alto numero di visitatori da tutta Italia. Quest’anno, però, si può assistere ad alcune novità che hanno contribuito a dare un fascino maggiore all’iniziativa.

Da un lato, infatti, Salerno ha voluto rendere omaggio al proprio status di “città del mare” con l’installazione in piazza F. Gioia di luci che rappresentano un vero e proprio pantheon marino, all’interno del quale un tritone gigante sovrasta su tutti gli altri abitanti del mare, tra cui incantevoli sirene e delfini guizzanti. Basterà alzare gli occhi per ritrovarsi immersi in tutta questa distesa blu, e per un attimo ci si potrà sentire come protagonisti del celebre film Disney La Sirenetta.

Salerno Tritone

In piazza Portanova, invece, si erge il maestoso albero alto circa 30 m e sul lungo mare una colorata ruota panoramica permette di osservare dall’alto la città in fermento.

Il vero spettacolo, però, è custodito nella Villa Comunale, dove si può assistere allo “zoo che vorrei”. Al posto di carrozze e castelli fantastici, adesso sono gli animali la vera attrazione del giardino incantato.

Da quelli più comuni a quelli più esotici riescono ad affascinare i visitatori per lo scintillio e la policromia delle luci oltre che per il contrasto creato dall’accostamento di esemplari provenienti da diversi parte del mondo: dalla savana ai poli sfiorando il laghetto tropicale dei fenicotteri rosa.

Un posto magico dove sarà piacevole perdersi tra i vicoletti popolati da amabili creature fantastiche e tornare bambini per una sera.

In fondo il Natale è proprio questo: riuscire a cogliere la gioia nelle piccole cose guardando il mondo con gli occhi di un bambino.

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Cinema Letteratura

Un Assassinio sull’Orient-Express e una riflessione sulla Giustizia

Un paio di “enormi baffi a punta, rivolti all’insù”, un elegante vagone di un treno famoso che solca vallate quasi dipinte e un eterogeneo gruppo di personaggi singolari con una storia affascinante da raccontare: così il celebre giallo di Agatha Christie prende vita nella nuova veste dell’ultimo adattamento cinematografico diretto e interpretato da Kenneth Branagh, insieme a un cast di attori di fama eccezionale.

Come se viaggiasse sul treno del binario parallelo e decidesse a un tratto di gettare un’occhiata incuriosita al vagone di fianco, lo spettatore incontra “dall’esterno” l’ambientazione e i personaggi che si susseguono placidamente con l’incedere del treno. In un raffinato interno, curato in ogni dettaglio, i protagonisti cominciano a ordire la trama della tela che rivela poco a poco il disegno complessivo.

Pur con alcune variazioni rispetto al romanzo di Agatha Christie, ogni interprete ricopre fedelmente il proprio ruolo nella storia. Dopo il delitto, chi con ritrosia, chi con fastidio, chi con desiderio di collaborazione, ciascuno ricostruisce i dettagli della notte fatale e inconsapevolmente offre alle “celluline grigie” dell’investigatore belga Hercule Poirot uno spiraglio sul proprio mondo interiore, al di là della maschera.

La resa del personaggio di Hercule Poirot presenta alcuni – purtroppo incongrui – elementi di novità rispetto al tradizionale ometto estremamente logico e razionale, privo di slanci emotivi ma profondamente attento a tutte le sfumature della psicologia che si manifestano nei comportamenti umani, oltre che fermamente convinto del carattere eccezionale delle sue abilità. Nel film appare un Poirot decisamente brillante e con una grande autostima, ma in alcuni momenti rivela tratti caratteriali più vulnerabili, sentimentalistici o addirittura tesi a gesti estremi, anche dal punto di vista fisico.

Senza dubbio non è semplice muoversi nel solco di una tale pietra miliare, né tantomeno fare i conti con il Poirot interpretato da David Suchet, assolutamente perfetto; perciò, nonostante quegli slanci emotivi probabilmente indirizzati a un pubblico poco incline all’atmosfera tesa, inquietante ma essenzialmente calma, tipica di un buon giallo, la figura complessiva dell’acuto investigatore con le sue tante manie di perfezione e simmetria in fondo è ben rappresentata.

Oltre alla meravigliosa fotografia, con delle inquadrature davvero suggestive, agli ottimi tempi di rivelazione dei dati (e delle immagini) e alle musiche, uno dei meriti principali del film è la riflessione finale sul tema della giustizia.

Entro quali limiti un’azione può essere definita “giusta”? Forse quando rispetta le leggi stabilite dall’uomo? E cosa succede, allora, quando il braccio della Legge non riesce a svolgere i suoi compiti? Può l’uomo intervenire senza la legittimazione di un’istituzione pubblica pur rispettando le leggi stabilite dalla società?

In effetti no, non può. Se l’uomo sceglie di vivere in una società deve necessariamente attenersi all’autorità delle sue istituzioni: è una questione di ordine, rispetto e Civiltà. Le istituzioni possono anche fallire in quanto costituite da uomini, imperfetti per natura, ma per la sopravvivenza della società umana è l’idea alla base dell’istituzione che non deve mai fallire. Non si può rinunciare all’idea del rispetto delle leggi nel momento in cui un pubblico ufficiale non le tutela, né cessare di comportarsi civilmente solo perché tanti non hanno idea di cosa significhi.

Eppure, la storia di Assassinio sull’Orient-Express permette di comprendere quanto sia labile il confine tra ciò che è “giusto” e ciò che è “sbagliato”, quanto sia difficile scegliere di non agire dinanzi a un’azione terribile e come, infine, un fortissimo dolore possa spingere a prendere decisioni razionalmente non condivisibili, irrazionalmente sì.

 

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Arte Eventi

Postcards from Paradise: un’alienante perfezione

Entrando nella sala di Castel dell’Ovo, che ospiterà fino al 9 gennaio 2018 la mostra dell’artista Silvia Papas, si avverte un gelo surreale; a essere surreale non è il tema rappresentato nei venti quadri esposti, ma lo spiazzante realismo che queste opere contengono. Su sfondi urbani che richiamano varie realtà, quali Napoli o New York, si stagliano figure femminili bellissime e sensuali che, come sottolinea la curatrice della mostra Maria Guida, sono debitrici, nella loro rappresentazione, dell’evoluzione che la figura femminile ha avuto nell’arte e nella cultura (dalla Salomè di Klimt alla Rihanna di Damien Hirst).

Queste donne spiccano per i colori accesi e caldi dei loro abiti e accessori, su uno sfondo cittadino caotico e in movimento, che le rende evidenti ancora di più perché dipinto con varie tonalità di grigio; quello che colpisce da subito è il contrasto non solo dei colori tra le figure e l’ambientazione, ma anche quello tra la vivacità degli abiti e l’opacità degli sguardi. Tutta la vitalità, la forza e il calore che ci aspetteremmo di trovare in uno sguardo è reso unicamente dagli abiti.

 

In queste Postcards from Paradise, titolo volutamente provocatorio, l’artista sembra mettere in risalto quello che tutti, o quasi tutti, oggi vorremmo: bellezza, successo e  perfezione, ma esteriori, assolutamente e inesorabilmente artefatti. Queste figure non traboccano di felicità per una vita di successo, o di gioia per un obiettivo raggiunto, o, ancora, di serenità per un momento in famiglia; dallo sguardo traspare una profonda solitudine e dai gesti una costante ricerca di qualcosa celata da un’ostentata sicurezza di sé.

 

L’artista, attraverso il suo punto di vista, mostra allo spettatore qual è il modello femminile imperante oggigiorno, o, più in generale, si potrebbe dire il modello umano.
Guardando questi ritratti risulta surreale l’immediatezza del riconoscervi una gestualità familiare, effettivamente impiegata nella quotidianità; si può comprendere, così, come sia proprio l’esasperante ricerca di differenziazione che, a ben vedere, omologa tutti.

Nell’osservare i dipinti, realizzati come foto o cartelloni pubblicitari, quindi incentrati sull’esteriorità, la riflessione che ne deriva è invece tutta introspettiva: senza indulgere in stereotipati moralismi, in queste opere non c’è una condanna alla bellezza, al culto del bello o alla volontà di essere esteriormente belli, piuttosto uno stimolo a riflettere su cosa si debba intendere per bellezza.

Gli antichi Greci usavano il nesso καλὸς καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs), per indicare la bellezza e il possesso delle virtù, un nesso imprescindibile per la cultura greca, volto a indicare che a qualità esteriori devono corrispondere pari qualità interiori. Forse dovremmo puntare a questo: considerare che una foto è e rimane solo una foto, che per quanto bella sia, non potrà mai contenere le infinite sfumature, i mille pensieri e le preoccupazioni che caratterizzano l’essere umano; non potrà mai definirci nella nostra interezza e complessità. Proprio in virtù di una tale complessità nessun individuo può essere uguale a un altro e non dovrebbe nemmeno tentare di esserlo andando a eliminare tutte quelle particolarità che lo rendono speciale; riducendo la complessità individuale e mirando all’omologazione l’accettazione è sicura, ma la personalità di ognuno è alla deriva.

 

Hjalmar Soderberg scriveva:

Vogliamo essere amati.
In mancanza di ciò, ammirati
in mancanza di ciò, temuti
In mancanza di ciò, odiati e disprezzati.

Vogliamo suscitare negli altri qualche sorta di emozione.
L’anima trema davanti al vuoto
e ha bisogno di un contatto a ogni costo“.

L’eccezionale bravura dell’artista risiede proprio nella capacità di ritrarre ciò che tutti “guardiamo” ogni giorno, ma che, filtrato dalle sue opere, diventa un “vedere”, portando a una domanda fondamentale: “l’immagine che offriamo al mondo di noi stessi rappresenta appieno e davvero il nostro io?”.

 

 

 

 

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Eventi Letteratura

“Leggimi subito, leggimi forte”: Nati per Leggere inaugura il nuovo Punto Lettura per i più piccoli

Uno scalpiccio impaziente si dispone disordinatamente attorno all’ingresso della nuova sede Nati per Leggere di Napoli, all’interno della Biblioteca Nazionale. Un nastro azzurro viene teso dai volontari e dal direttore della Biblioteca, mentre due bambini avanzano timidamente e sciolgono il fiocco inaugurale aprendo ufficialmente il Punto Lettura tra gli applausi degli adulti e l’allegria dei bimbi.

 

Dopo la chiusura della sede al PAN, il progetto Nati per Leggere, che ha un’estensione nazionale, riparte ancora più forte nel cuore della città campana con una partecipazione eccezionale.

 

Minuscole scarpine colorate si svincolano dai genitori e corrono lungo il corridoio tappezzato di libri illustrati. Alcune volontarie sono pronte ad accogliere le frotte di bimbi che entrano nella sala lettura e si siedono a terra in attesa della prima storia. Prima, però, tutti in coro recitano la filastrocca di Nati per Leggere:

Leggimi subito, leggimi forte,
dimmi ogni nome che apre le porte!
Chiama ogni cosa, così il mondo viene!
Leggimi tutto, leggimi bene,
dimmi la rosa, dammi la rima,
leggimi in prosa, leggimi prima!

In collaborazione con l’Associazione Culturale Pediatri, l’Associazione Italiana Biblioteche e il Centro per la Salute del Bambino, il progetto è basato sulle grandi potenzialità di sviluppo cognitivo racchiuse nella lettura a voce alta rivolta ai bambini fino ai sei anni.

Sin dalla nascita, infatti, è possibile stabilire un’efficace comunicazione pedagogica attraverso la voce e il contatto con gli adulti, con effetti sonori e visivi, poi, progressivamente, grazie al tatto e il coinvolgimento diretto del piccolo lettore con domande e inviti alla creatività personale, fino ad arrivare alla creazione di una propria “biblioteca” domestica fatta su misura.
Fondamentale è il rapporto umano che si crea nel Punto Lettura tra il bambino, i genitori e i volontari, preparati con un apposito corso di formazione.

Sui morbidi cuscini colorati disposti sul pavimento il brusio si disperde, braccia adulte accolgono manine vivaci, e voci alte cominciano a raccontare storie incantevoli a tanti sguardi curiosi e vigili.

La sensazione è quella di trovarsi in un luminoso salotto, a una grande riunione di famiglia: si percepiscono immediatamente l’accoglienza, il calore, la libertà di movimento.

Il nuovo Punto Lettura è ben più di una Biblioteca o un semplice spazio di lettura, è un Punto di Ritrovo, di Incontro vero, un Punto di Riferimento attorno al quale si coagulano passione, stimolo creativo e un forte senso di appartenenza.

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Arte Eventi

Pompei@Madre. Materia archeologica: un dialogo artistico tra due epoche

“L’unica via per noi di diventare grandi e, se possibile, insuperabili è l’imitazione degli antichi”. Questa affermazione. con cui J. J. Winckelmann nel Settecento canonizzava la perfezione del mondo antico, porta ancora oggi a domandarsi se effettivamente qualsiasi produzione artistica successiva a quell’epoca aurea abbia dovuto in qualche modo emulare il mondo antico per riuscire almeno a sfiorare quella grandezza senza tempo.

La mostra Pompei@Madre. Materia Archeologica, inaugurata sabato 18 novembre al museo Madre di Napoli, non mette in scena una semplice imitazione o ripresa da parte delle molteplici correnti artistiche che si sono avvicinate a tutto ciò che l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ha conservato, a partire proprio dalla scoperta del sito pompeiano nel 1748, ma un dialogo in diacronia tra la materia artistica contemporanea e quella archeologica.

Museo Madre Opening 2
Le varie sezioni artistiche, che si snodano attraverso quasi tutto il museo, concentrandosi in maniera preminente al terzo piano, non sono realizzate seguendo un criterio cronologico nell’esporre alcuni dei resti provenienti da Pompei, parte del materiale di studio derivato dalle campagne di scavo e riproduzioni d’arte moderna e contemporanea, ma mettendo in luce i molteplici punti di vista attraverso i quali è possibile guardare e riprodurre un singolo evento.

Museo Madre Opening

Il visitatore, così, si troverà ad osservare gli scatti di Victor Burgin con la sua teoria delle colonne di Basilica I e Basilica II e al centro la colonna spezzata di Maria Loboda, che dissacra il concetto stesso di colonna e la sua funzione portante, a dimostrazione di come l’elemento emblematico dell’arte antica possa essere osservato e reinterpretato in svariati modi.

 

 

Legata ancor più al concetto secondo cui l’arte ha il potere di far rivivere un singolo evento infinite volte e di mostrarlo in infiniti modi è la sezione centrale della mostra,  dedicata alla rappresentazione dell’eruzione del Vesuvio.
Posti in maniera speculare, da una parte il famoso Vesuvius di Andy Warhol in modo colorato e vivace, dall’altra con toni cupi e drammatici Eruzione del Vesuvio dal ponte della Maddalena di P. J. Volaire, offrono due letture opposte del medesimo evento, ma entrambe evocative e spiazzanti: questo è il potere dell’arte.

 

In un percorso in cui l’arte ricrea continuamente se stessa e non è relegata al semplice e riduttivo compito di evocare o portare alla memoria qualcosa, anche un elemento caratteristico delle ville sub-urbane di I secolo d.C., quali gli Hortii pompeiani, è ripreso in modo tale da offrire al visitatore l’idea che l’arte abbia la capacità di fiorire in maniera del tutto originale sia su un terreno su cui prima ci sono state altre colture – o culture, sia su un terreno del tutto nuovo.

 

Dunque ogni espressione artistica appartiene a chi la produce e a chi ne usufruisce; ogni visitatore vedrà qualcosa che un altro non può vedere, un filo, una connessione tra le varie opere che è da una parte pubblica, perché sotto gli occhi di tutti, e dall’altra personale, perché legata a parametri interpretativi propri di ognuno.

Come a voler coronare questo percorso fatto di richiami tramite opposizioni e analogie, sulla splendida terrazza del museo una tra le opere esposte si ricollega proprio al principio di dialogo, un dialogo che l’arte deve avere con se stessa in diacronia e sincronia ma anche con altre forme artistiche “Il mare non bagna Napoli” , opera visiva di Bianco-Valenti del 2015, riprendendo il titolo di un famoso libro di Anna Maria Ortese, esprime il modo in cui un’opera d’arte, che ha come suo canale di trasmissione privilegiato la vista, si possa affidare anche alle parole, che sono il normale veicolo d’espressione artistica della scrittura.

 

 

Siamo sempre stati abituati a guardare l’arte attraverso categorie: c’è l’arte antica, quella moderna, quella contemporanea, le diverse sottocategorie, etc. La mostra esposta al Museo Madre potrebbe avere come idea di base proprio quella di superare queste categorie mentali e interpretative, presentando in alcuni casi anche opere visive forti e dissacranti, così da disorientare il visitatore il cui gusto artistico è spesso orientato in base alle categorie suddette. Proprio lo stato di disorientamento genera una riflessione e porta a chiedersi: “Perché?”. Perché associare dei teschi, copie di quelli ritrovati a Pompei, con degli specchi?
Interrogarsi su ciò che si sta vedendo, sulle profonde interconnessioni tra gli oggetti, porta il visitatore a non essere un fruitore passivo dell’opera d’arte, ma attivo: aggiungendo una personale interpretazione si può completare la percezione dell’opera in sé.
“L’arte ci consente di trovare noi stessi e di perdere noi stessi nello stesso momento” diceva Thomas Merton, proprio perché è un dialogo costante con tutte le sue componenti e noi siamo allo stesso tempo i destinatari e in parte i creatori di ogni opera d’arte che facciamo nostra.

 

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Cinema

Il fiabesco, il moderno e l’umanità nel film “Gatta Cenerentola”

Gatta Cenerentola è stato la rivelazione della 74esima edizione del Festival del cinema di Venezia, dove ha fatto la sua prima apparizione nella sezione “Orizzonti”.  Una vittoria tutta partenopea dato che i produttori Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone fanno parte della Mad, realtà produttiva napoletana. Il film è preceduto da un breve cortometraggio, Simposio suino in re minore, realizzato da Francesco Filippini.

Gatta Cenerentola è un film d’animazione ispirato alla celebre fiaba di Basile, riproposta in chiave moderna e con un’ambientazione interamente partenopea.
La vicenda della piccola Mia, definita dalla perfida matrigna “’a iatta”, si svolge all’interno di una nave tecnologica, la Megaride, capace di registrare qualsiasi cosa accada per poi riprodurla sotto forma di ologrammi. La nave è stata costruita dal padre Vittorio Basile, un ricco armatore e scienziato con un grande progetto: quello di trasformare la città in un avanzato polo tecnologico. La vita dell’uomo, però, viene spezzata dal perfido Salvatore Lo Giusto, un trafficante di droga segretamente amante di Angelica, la promessa sposa di Basile. In seguito allo shock la piccola Mia perde l’uso della parola ed è costretta a vivere con Angelica e le sue figlie tra angherie e frustrazioni. L’intervento di Primo Gemito, ex uomo della scorta di Basile, sarà fondamentale nel susseguirsi delle vicende e soprattutto nell’ostacolare i diabolici piani di Salvatore.

Dagli autori è stato messo in evidenza il ruolo dominante della nave. Se è vero che l’impronta napoletana è presente ovunque, dalla lingua alla caratterizzazione dei personaggi, d’altro canto, però, non possiamo negare che la protagonista assoluta è proprio la nave. Questa, infatti, è il principale palcoscenico su cui si svolgono le principali vicende, un enorme contenitore che ha a disposizione un vasto archivio. Questo aspetto fa sì che ogni persona possa rivivere avvenimenti del passato simili a quelli che stanno per accadere. Scienza e memoria vengono cristallizzate insieme nel concetto di ologramma. Proprio la nave potrebbe essere considerata la fata turchina di questa storia perché aiuta più volte la giovane Mia a evitare pericoli imminenti e a rivolgersi sempre verso il bene.

Un altro elemento importante è il contrasto che viene a crearsi tra elementi antichi come gli abiti dei personaggi ed elementi nuovi come gli ologrammi. Al riguardo i produttori hanno sottolineato la loro volontà di miscelare questi elementi al fine di rendere il film più appetibile allo spettatore. Così si passa dall’art dèco del primo periodo fascista agli anni ’50 per poi giungere al forte modernismo, rappresentato dalla tecnologia. È una miscela di elementi che servono a mantenere l’indefinizione cronologica propria del genere fiabesco senza, però, sfociare nel fantasy.

 

Daniele Sansone è anche il frontman dei Foja, band folk-rock napoletana a cui si deve la paternità della canzone A chi appartieni, cuore pulsante della colonna sonora del film.

Ad un primo ascolto si tende ad associare questa canzone a una perdita, a un dolore, a un silenzio che sembra amplificarsi ancora di più nell’anima di chi sente una simile mancanza; ma da questa situazione di tormento e follia, evocati dalla canzone, emerge un più forte senso di riscatto e di voglia di combattere, racchiuso in una frase che condensa il significato più profondo di tutto il testo: nunn’è ca me sento cchiù overo si piglio e me invento ‘na via ma saccio ca n’omme è cchiù sulo si resta assettato a guardà”.

Così, dall’impotenza e dal dolore la visuale si amplia e la canzone invita a fare un balzo fuori dal nostro piccolo mondo. L’inerzia, qualunque sia la sua origine, è il peccato maggiore che possiamo commettere verso di noi, ma anche verso ciò che ci circonda. Rimanere fermi a guardare tutto crollare, chiudersi e isolarsi in questa inerzia è la peggiore delle soluzioni. La struggente malinconia è evocata per immagini, come quel ridere in mezzo alla gente, o sbagliare ed essere contenti: è una malinconia che ha in sé una grande luce, che si esprime proprio nella forza di riuscire a comunicare questa situazione. Mettersi in moto e agire, in qualsiasi ambito della vita, non è garanzia di successo, non rende più veri o più forti, rende meno soli. Sentirsi parte di qualcosa, tanto nelle relazioni personali quanto nella comunità, rende umani; “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un essere umano, nulla che sia umano mi è estraneo”).

Dunque, riascoltando questa canzone, il messaggio potrebbe essere quello di guardare un po’ più in là delle nostre mancanze o tormenti personali, o meglio, di partire da queste per vedere quelle di chi è intorno noi. È un invito a non essere inerti e indifferenti; un invito a essere umani. Nel rimanere fermi a pensare di non poter fare mai niente si genera un circolo ancora più alienante di apatia e distanza da tutto e tutti; girarsi dall’altra parte per mantenere uno stato di tranquillità non è vivere ma fuggire.

“Da sule nun se vence maje”, dicono i  Foja in un altro loro brano, ed è su questo che bisogna riflettere. A chi appartieni può essere anche letto come un invito, un invito a prestare attenzione alle persone che fanno parte della nostra vita, un invito a prestare attenzione alla comunità di cui facciamo parte, al signore per strada e al conoscente che racconta qualcosa di sé, a chi amiamo e a chi non conosciamo, non per buonismo o apparenza, ma perché siamo umani e possiamo sempre fare qualcosa, soprattutto in un contesto sociale che alcune volte può portare a sentirsi inerti e spaventati, dove, se ci sentiamo messi all’angolo, chiuderci sembra l’unica opzione. Reagire è un dovere, è qualcosa  che dobbiamo in prima istanza a  noi stessi; e in questa reazione dovremmo coinvolgere anche gli altri, perché la cosa peggiore che può capitarci è quella di farci togliere le parole, ma soprattutto la voglia di conoscere le gioie e i tormenti di chi vive accanto a noi.

 

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Eventi Letteratura Teatro

Glob(e)al Shakespeare e la sfida dell’atemporalità

Glob(e)al Shakespeare, la produzione della Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, un progetto di Gabriele Russo, si propone di coniugare il linguaggio contemporaneo con quello del celebre drammaturgo elisabettiano.

Di fatto, il pubblico si trova immediatamente immerso nell’atmosfera inglese grazie alla particolare conformazione data alla platea: le tradizionali poltroncine rosse sono sostituite da panche di legno disposte in semicerchio attorno ad un insolito palcoscenico a forma di pedana che arriva fin quasi al centro della platea.

Nella stessa serata sono portate alla ribalta una tragedia, Giulio Cesare. Uccidere il tiranno, e una commedia, Una commedia di errori, due originali riscritture curate dai registi Andrea De Rosa ed Emanuele Valenti.

Giulio Cesare. Uccidere il tiranno esordisce con l’ingresso silenzioso di Antonio, con camicia e pantaloni neri eleganti. La scena è molto semplice: un grande sacco nero, pesante, pende dal centro del soffitto, mentre sulla pedana si notano tre botole piccole e una più grande centrale, tutte vuote. Antonio colpisce il sacco nero e un violento effetto sonoro coincide con il buio improvviso in sala. Dal sacco comincia a scendere lentamente del terriccio, come la sabbia di una macabra clessidra. Antonio prende una pala e comincia a gettare meccanicamente il terriccio nella botola più grande.

Dalla botola piccola centrale emerge Bruto. La sala è buia; una luce tenue e fredda imperla il giovane impaurito e pieno di rimorso che rimugina sul suo atroce delitto, riflettendo sulla secolare opposizione tra civiltà e natura.

Cassio sale dalla botola sinistra con un movimento atletico ma lento e cadenzato, una voce profonda ipnotica; il congiurato ricorda la personalità politica di Cesare, che “ha fiutato il movimento della storia”, e paragona la città di Roma a una madre violentata che è stata appena salvata grazie al loro intervento.

Dalla botola destra spunta Casca, che con un tono frenetico e quasi esasperato descrive la scena sociale cesariana come una completa, perfetta recitazione di massa in cui i personaggi non sembrano essere consapevoli del ruolo fittizio da loro ricoperto quotidianamente.

Tutti e tre vestono abiti militari contemporanei.
Antonio continua a spalare silenziosamente.

I tre congiurati, pur palesando diverse emozioni, cercano di esprimere il senso del loro gesto, con metafore e similitudini pregnanti accompagnate da una forte gestualità. Il fulcro della riflessione è Cesare, la radicata identificazione del grande uomo politico con Roma, con la Repubblica, con il popolo, ma anche la sua essenza profondamente umana e talvolta addirittura fragile: “il corpo dello Stato era… un corpo come tanti”.

Bruto parla al popolo per persuaderlo della necessità dell’omicidio, ma ad ogni affermazione è colpito da Antonio con una manciata di terra – simbolo delle ceneri di Cesare, della sua fisica presenza pur dopo la morte.

La luce si accende. Antonio scende tra il pubblico e comincia a parlare con una voce dolce e conciliante. L’idea di Cesare è forse morta? No di certo: “lo Stato è un corpo plurale con il volto riconoscibile di un uomo”. Antonio legge le disposizioni testamentarie di Cesare con un microfono, mettendo in luce le qualità positive dell’uomo e i suoi provvedimenti ad esclusivo favore del popolo. Nel frattempo i congiurati si armano e danno il via a una marcia militare quasi danzata.

A differenza dell’originale che si conclude con Ottaviano e Antonio che seppelliscono Cesare, la scena si sposta a Filippi, sipario dei tirannicidi raccontato dalle voci dei protagonisti a mo’ di telecronaca sportiva: con un tono esaltato e appena cantato, sulla base di una musica ritmata e in una climax crescente si succedono immagini cruente che alludono anche alle più distruttive realtà contemporanee come l’uso della bomba e del gas, mentre il teatro si riempie di fumo. Ad uno ad uno muoiono gli assassini, e Antonio si domanda a quel punto “che forma avrà la vita e noi”.

Lo spunto di riflessione è condotto inevitabilmente fino ai giorni nostri, fatto esplodere nel momento in cui vengono abbattuti odierni regimi “tirannici” e la popolazione si trova dilaniata. Labile diventa quindi il confine tra liberatori e oppressori, e forte è il richiamo all’antico dilemma tra libertà e sottomissione al potere, al nodo cruciale in cui ogni comunità si trova a dover scegliere se imparare a gestire la propria libertà oppure rinunciare ad essa in nome della sicurezza.

Su questo atavico interrogativo senza risposta si chiude la bellissima, travolgente tragedia, che riesce brillantemente a dimostrare come le tematiche portate in scena da Shakespeare rappresentino alcuni dei pilastri del pensiero contemporaneo, un imprescindibile patrimonio culturale internazionale che è e sarà sempre percorso da linfa vitale.

Assolutamente all’altezza la spumeggiante Una commedia di errori, ambientata ad Harlem, New York, all’inizio del Novecento.

La scena è creata da una serie di cassette di legno con la scritta “RUM”, la cui disposizione viene cambiata e adattata di volta in volta alle circostanze.

Ispirata ai Menecmi di Plauto, la commedia gioca sulla lunghissima serie di fraintendimenti scatenata dal ricongiungimento – inconsapevole – di due coppie di gemelli di origine napoletana vissute una a Buenos Aires, l’altra a New York.

In un vortice colorato e musicalmente vivacissimo si fondono, scambiano e mescolano goffamente diversi linguaggi, registri linguistici e dialetti. Gli attori interpretano più personaggi in una divertente confusione di persone, identificazioni e scambi verbali accompagnati da frequenti scene di batoste. I personaggi femminili esprimono grande forza, ma soprattutto un’ottima capacità gestionale che fa contrasto con le preponderanti aspirazioni dei personaggi maschili, segnati da grandi sogni e speranze.

Spesso i personaggi fanno riferimento proprio a Shakespeare e ad Una commedia di errori, arrivando perfino a recitarne alcuni estratti; non comprendendo le strane situazioni in cui si è ritrovato, uno dei gemelli esclama: “siamo in una commedia riscritta male!”. In fondo “non conta l’attore, ma il personaggio e le parole che dice”, e infatti grandissima attenzione è riservata alle parole.

Saltando e riemergendo dai tombini, elemento fondamentale dello svolgimento, la serie di errori viene progressivamente svelata. A questo punto, però, avviene il colpo di scena finale: rinunciando alla tradizionale agnizione che coronava felicemente le commedie antiche, una voce da un tombino dichiara che nella nebbia della Grande Mela si sono confuse le lingue ma soprattutto il Riso e il Pianto. “Chiaro nell’essere equivoco”, il dramma si conclude con la morte di alcuni protagonisti in una sparatoria, eliminando il riconoscimento dei gemelli e l’atteso lieto fine, eppure, straordinariamente, non riuscendo a spegnere i sorrisi degli spettatori.

Il progetto Glob(e)al Shakespeare, dunque, porta davvero in scena la sorprendente atemporalità shakespeariana, vincendo senza ombra di dubbio la sfida posta dalla fusione di linguaggi e codici comunicativi differenti. Il merito è sicuramente ascrivibile alla bravura delle figure professionali coinvolte, che hanno saputo dar voce e veste nuova alla smisurata forza delle idee espresse dai drammi di William Shakespeare.